La guardavo fisso da un po’ di tempo. I suoi occhi tradivano stanchezza, lottavano con gli angoli della bocca rivolti verso un allegro sorriso. Quanti anni saranno passati. Una figura elegante, flessuosa pantera a riposo, schiva nel mostrare la sua dirompente bellezza. Non mi riconobbe, non subito perlomeno. Sentiva il peso del mio sguardo sulla seta dei suoi capelli, indomiti, raccolti sul suo collo. Una solida speranza trasudava dalle sue mani senza fronzoli, corte e sincere come quelle di un bambino. Assidua, seguiva il filo delle parole che alitavano a uno a uno i pensieri del professore di fronte. Raccolta, la sua fronte si corrugava ritmica alle onde sonore, che avviluppavano questioni filosofiche.
Quanta meraviglia ci può essere in una donna che studia. Ho sempre avuto un debole per lo spirito della mente, pozzo di tesori inespugnabili, scrigno di paradisi futuri. Mi era mancata. Lo sapevo anche prima che mi sarebbe mancata. Ora ne avevo la certezza.
Ma sei tu? Non ci posso credere. Se vuoi, dopo la lezione, possiamo mangiare qualcosa insieme. Mi disse. Se voglio. Tesoro mio. Ti guarderei in adorazione ore e ore. Ti accarezzerei col calore del mio desiderio. Ti farei ridere così tanto da stare male. Ti presenterei alle persone che più contano per me. Ti farei dimenticare i rimorsi, seppellendoli sotto la nostra felicità, pazza. Ti aprirei, finalmente, i recessi del mio cuore, consegnandoti una lama affilata per farlo a pezzi. Magari domani, risposi, ora è tardi.